Seminario a tema
“ICF nella scuola, nella formazione e nel lavoro”

 

Francesca Chimetto  - Azienda USL Città di Bologna

"L'ICF ed il programma disabilitA' dell'ASL."


Sono Francesca Chimetto, lavoro nell'Unità Operativa di Neuropsichiatria dell'età evolutiva di Bologna città, e parlo a nome di un gruppo di persone tra cui anche il dott. Giancarlo Marostica che è il responsabile del Programma Aziendale Tutela delle Persone con Disabilità. 

Il programma ha come obiettivo strategico quello di assicurare alle persone con disabilità percorsi diagnostici, terapeutici e riabilitativi integrati che consentano la migliore qualità di vita possibile. Ha quindi il compito di mettere in rete gli operatori che lavorano in servizi diversi. 

a disabilità non è una malattia, ma un insieme di difficoltà o limitazioni nel compiere un'attività che per essere attenuate o superate spesso richiedono l'aiuto di diverse figure professionali e di diversi attori. 

er quanto riguarda l'azienda sanitaria di diverse strutture sanitarie. Serve quindi un linguaggio non clinico, ma fenomenologico e descrittivo che possa essere utilizzato da tutti gli attori e quindi da tutte le diverse professionalità, ma anche e soprattutto dagli attori: dalle persone con disabilità o dalle famiglie, dagli attori sociali o nella scuola per es. cioè da tutti quelli che contribuiscono al percorso di integrazione e inclusione.

L'icf risponde a queste esigenze. Ecco perché l'icf. Perché appunto è uno strumento che può favorire la comunicazione tra professionalità diverse, questo all'interno dell'azienda, o tra operatori diversi, all'esterno.

 Diversi attori all'interno dell'azienda, che sono per es. i clinici fisiatri, neuropsichiatri, psichiatri, pediatri, psicologi, otorini, audiologi, oculisti, cioè tutti quei clinici che si occupano della diagnosi e, sempre all'interno dell'azienda, il personale riabilitativo: logopedisti, educatori, fisioterapisti, psicomotricisti, ortottisti, o tecnici come gli audioprotesisti. 

E' importante perché questo linguaggio e questo modello, consentono la comunicazione tra servizi diversi interni all'azienda. Per es. servizio dei minori e servizio degli adulti, servizi come la neuropsichiatria che sta all'interno del dipartimento di Salute Mentale e Servizi dei Distretti , dove c'è l' USSI disabili adulti (un acronimo bolognese che sta per unità dell'integrazione sociosanitaria) e con servizi esterni come per es. tra azienda sanitaria e scuola, tra azienda sanitaria e servizi sociali. 

E' già stato detto prima che l'icf consente di elaborare la diagnosi funzionale in modo costruttivo e con l'aiuto di tutti gli operatori coinvolti. 

Che cosa è stato fatto a Bologna per favorire la conoscenza e l'utilizzo di questo strumento? sono stati avviati dei percorsi di formazione, sono stati avviati dei corsi di livello base trasversali alle figure riabilitative e all'interno dei diversi servizi. 

La formazione del livello base è stata diffusa sufficientemente mentre invece i corsi di livello avanzato finora sono stati fatti in un'unica realtà : la neuropsichiatria infantile. Il corso è stato aperto però anche ai servizi dei disabili adulti. Un ulteriore corso partirà fra breve promosso dalla Regione , realizzato dal Centro Regionale Ausili e aperto soprattutto agli operatori sociali che finora sono stati poco coinvolti nella formazione nell'azienda. 

Quali criticità abbiamo trovato? 

E' stato detto, prima, i percorsi che portano a un cambiamento chiedono più convinzione, impegno, fatica, soprattutto inizialmente. 

L'attuale organizzazione dei servizi sanitari è estremamente frammentata, nel senso che, per motivi difficili da spiegare , si tende a favorire la settorializzazione dell'intervento, che è concepito più in relazione alle diverse professionalità che non all'equipe. Anche se nella nostra storia il lavoro di equipe ha molta importanza si sta facendo fatica a mantenere questo modello di intervento. 

Questo rende difficile la diffusione dell'ICF perché se gli operatori di un'unità operativa fanno una formazione e poi non hanno un momento in cui si mettono in comunicazione con gli operatori degli altri servizi ( che magari a loro volta hanno fatto la stessa formazione) il linguaggio non si diffonde. 

Quali proposte per superare questa criticità? 

La proposta è quella di provare a costituire dei gruppi che sperimentino le conoscenze e in questo caso il modello icf in momenti in cui è necessario avere un linguaggio comune e in cui questo strumento può essere di grande aiuto. Per es. noi (noi siamo appunto prevalentemente dei servizi che si occupano dell'età evolutiva) abbiamo individuato due momenti che rispondono alle caratteristiche di cui ho parlato . 

Un primo momento è quello del passaggio dalla scuola secondaria di primo grado alla secondaria di secondo grado per il quale stiamo appunto cercando di programmare per il prossimo anno la sperimentazione della classificazione icf su alunni certificati con la partecipazione e la collaborazione di insegnanti. 

Altro momento, in cui pensiamo di sperimentare il modello, è il passaggio di competenze dai servizi dell'età evolutiva verso i servizi per gli adulti. In questo momento molto complesso, in cui cambia completamente la prospettiva sia delle famiglie che dell'utente stesso, ci sembra fondamentale che, per preparare questo passaggio, i due servizi coinvolti utilizzino un linguaggio comune. 

Vi ringrazio. 

 

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